La collezionista

I riccioli biondi e setosi le rimbalzavano in testa a ogni passo, a ogni ticchettio dei suoi passi. Ogni sedia, di fronte alle scrivanie, ruotò nelle sua direzione. Sguardi infuocati di lussuria le bersagliavano la schiena. Era elegante, splendida nel suo incedere, piena di sé. Lucrezia pregò mentalmente che inciampasse, o che uno del suo seguito mettesse un piede in fallo, portandosi dietro tutta la truppa di assistenti. La seguivano tutti come dei cuccioli ammaestrati.
“Sei una fottutissima amministratrice, una miliardaria che non ha rispetto per nessuno. Te la tiri troppo…” pensò Lucrezia.
Ma per quanto Lucrezia disprezzasse il proprio capo, avrebbe tanto voluto essere lei. Era così bella: la pelle sempre abbronzata, la figura a clessidra, i fianchi morbidi e un culo che avrebbe fatto eccitare anche un morto. E gli occhi? Un blu cobalto in cui perdersi. Vanessa Storti era l’erede di una delle prime dieci aziende più ricche del nord; quando il padre le avrebbe ceduto la sua parte, andando in pensione, sarebbe diventata la donna più ricca e più bella “del mondo” dei creatori di gioielli. Come se non avesse già tutto!
“Davide, ho bisogno che tu la smetta di respirarmi sul collo. Il tuo respiro sa di vaniglia e di marcio. E’ terribile.” Disse, girandosi verso uno degli assistenti.
Il ragazzo si scusò, si girò dalla parte opposta al suo capo e si alitò su una mano, poi annusò il suo odore.
“Sei ridicolo! Rischi il licenziamento… ricordalo!” lo minacciò Vanessa.
Vanessa girò sui tacchi, prese il suo caffè dal vassoio che aveva preparato Lucrezia. Bevve un sorso e subito sputò nella tazza.
“La prossima volta voglio un doppio espresso, con poca schiuma, senza zucchero e con una punta di crema di latte.” Sbuffò guardando il soffitto. “Quante volte ancora dovrò dirlo?”
Riprese il suo cammino verso il proprio ufficio e tutti gli assistenti la seguirono. Lucrezia si alzò dalla sedia e si unì al gruppo, ma uno dei ragazzi le disse di rimanere fuori.
L’impiegata passò le successive ore a riordinare dei file, stampare alcuni documenti e posizionarli nei rispettivi schedari. Doveva inoltre seguire gli ordini e alcuni clienti. Aveva quasi finito di sistemare, quando Vanessa le passò davanti, forse per andare in bagno. Pensò di nuovo che avrebbe voluto essere lei e pensò anche si sarebbe divertita un mondo a tormentarla, punzecchiarla, farla stare male. Magari una bambola woodoo nelle sue mani avrebbe sortito i giusti effetti, e con le maniere giuste non si sarebbe più pavoneggiata come faceva sempre.
Rimosse dai pensieri quelle cattiverie e, controllando una lista dei documenti da registrare, si accorse che qualche foglio era stato stampato male. Inviò di nuovo il file e andò nella stanza adiacente dove era posizionata la stampante. Attese che i documenti fossero pronti e quando tornò alla propria scrivania trovò il caos: molti dei documenti erano per terra, qualcuno stracciato e qualche altro bruciacchiato di sigaretta.
“Perché mi fa ancora questi scherzi infantili? È così malvagia, oppure…” borbottò. Sapeva che era stata lei, Vanessa. Lo aveva fatto molte altre volte.
Lucrezia fissò il pasticcio per un po’ e poi afferrò il soprabito e uscì dall’edificio. Si diresse verso la propria auto. Sbloccò le portiere, salì, avviò il motore e partì rombando. Dieci minuti più tardi entrò in un bar. Ordinò due caffè entrambi doppi, con poca schiuma, senza zucchero e con una punta di crema di latte. Ne bevve uno, pagò e poi tornò alla propria auto, con l’altro caffè in mano. Salì e tornò negli uffici di Storti Oro.
Entrò nell’ufficio dell’amministratore delegato senza bussare, si sedette su una delle poltrone di fronte e le offrì il caffè.
“Signora,” si schiarì la voce, “Volevo scusarmi per stamattina. Non voglio fare lo stesso errore domani…”
“E’ per questo che sei uscita alle otto della sera e me ne hai comprato uno?”
“S… Sì”, balbettò Lucrezia.
“Bevilo tu! A quest’ora mi serve altro… e poi… vattene! Mi dai noia…”
Lucrezia si alzò dalla sedia e si avvicinò al suo capo. Prese la tazza e si soffermò davanti alla bocca chiusa di Vanessa, che alzò un sopracciglio, guardandola indagatoria. L’impiegata la colpì in pieno volto con uno schiaffo. La donna rimase a bocca aperta e Lucrezia le afferrò il collo cercando di farle bere il caffè. Il liquido caldo colò sul mento della donna, che afferrò le mani di Lucrezia e le graffiò. Dopo un po’ Vanessa si accasciò sulla poltrona.
Lucrezia trascinò il suo capo lungo il corridoio fino all’ascensore e scesero fino al piano seminterrato. La caricò in auto e andò a casa. Aprì con il telecomando la serranda del garage e quando fu all’interno, dove nessuno poteva vederla, trascinò la donna in una stanza dove erano stoccati diversi mobili, una poltrona con pesanti cinture e un tavolo con dei bisturi, coltelli e altri accessori da chirurgo. Imprecando, tirò la donna su una sedia. Un po’ polverosa, era da tempo che non l’utilizzava. In una delle pareti, attrezzata con delle mensole, facevano sfoggio alcune parrucche.
“Oh, quanto tempo ho aspettato per aggiungere qualcosa alla mia collezione…” sussurrò.
Lucrezia preparò i suoi strumenti, il desiderio di rifare quella cosa aveva ribollito a lungo. E Vanessa era la giusta vittima. Le sceglieva con cura, doveva esserci sempre un motivo per fare quello che stava andando a fare.
“La tua colpa è essere bella…” mormorò, “non puoi essere bella e pure ricca. La mia è una scelta giusta ed è solo colpa tua.”
Lucrezia prese il bisturi e si girò verso la donna.
“Ognuno si merita quello che semina. Hai svolazzato troppo…”
“Che diavolo! Brutta cagna impazzita!” Vanessa si era svegliata e aveva cominciato a urlare.
“Calmati. Non puoi fare nulla, devi solo aver pazienza che io faccia quel che devo fare. Hai più di tanti altri: talento, soldi, fascino! Hai i genitori ricchi, una bella casa, tesori sepolti nelle tue casseforti! Hai tutto per arrivare in cima alla lista dei potenti, senza fatica! E non è giusto! Non meriti ciò che hai!”
“Non so di cosa cazzo stai parlando!” inveì la donna, tendando di liberarsi dalle cinghie che la tenevano stretta alla sedia.
Lucrezia cominciò a muovere il bisturi. “Tu sputi nel mio pranzo. Rovini il mio lavoro. Mi prendi in giro, mi tormenti. Per uno stage!? Ne ho abbastanza. Ti sei spinta troppo oltre.” Continuò a far scivolare il bisturi, più indietro, lungo la testa di Vanessa. La donna urlò e poi sussultò dal dolore.
“Smettila di muoverti! Cazzo!” Lucrezia spinse la mano sotto il collo della donna, spingendo il mento, avendo così una posizione migliore per incidere attorno al cuoio capelluto. Alla fine, la massa di capelli, arruffati e coperti di sangue, cadde a terra. Delicatamente, Lucrezia raccolse lo scalpo e se lo coccolò al petto. Poi lavò con cura i capelli, come se avesse potuto portar via ogni ricordo e ogni odore che apparteneva a quella donna che giaceva sulla poltrona, con il cranio in bella vista.
Ripulì ben bene la pelle, l’asciugò e poi fissò i capelli su una base per parrucche.
Si girò per affrontare di nuovo il suo capo. Era semi cosciente, sanguinante e nonostante tutto era bellissima. Il viso di Lucrezia si infuocò di rabbia, le sue dita si piegarono sul bisturi e poi lo affondò in uno dei bulbi oculari di Vanessa, rigirandolo più volte, fino ad arrivare all’osso. Fece la stessa cosa con l’altro occhio e il sangue correva sulle gote della donna come un mascara quando viene a contatto con le lacrime, o con l’acqua. Si ritenne soddisfatta, aveva in quel modo annullato la bellezza di Vanessa. Le recise la giugulare, era ora di farla finita.
Poi riprese in mano lo scalpo di Vanessa e se lo mise in testa, andò allo specchio che stava tra uno scaffale e l’altro e si aggiustò i lunghi riccioli biondi. Si truccò con cura e andò a sedersi su una poltrona dietro una scrivania. Sorrise alzando la cornetta di un vecchio telefono a disco: “Buongiorno, sono Vanessa Storti, amministratore delegato di Storti Oro… Buona sera sono l’amministratore delegato di Storti Oro… Piacere di conoscerla, mi chiamo Vanessa Storti, di Storti Oro…”
Era il 12 giugno e nella vicina parrocchia stavano già cominciando i preparativi per festeggiamenti del patrono della città: Sant’Antonio. Lucrezia si tolse la parrucca e la ripose con cura. Si tolse il camice di plastica che aveva indossato, si sfilò i guanti di lattice e poi andò allo specchio a sistemare capelli e trucco.
Mezzora dopo era in mezzo alla folla dei parrocchiani che si occupavano di allestire alcuni spazi.
Don Giulio la salutò: “Lucrezia, anche quest’anno sei dei nostri?”
“Eh sì! Dai, Don Giulio… di la verità… non potresti più fare a meno di un’anima dolce e tenera come la mia!”