D’argine al male – Blog Tour – 5° tappa, Analisi dei personaggi
Tra tutti coloro che commenteranno sui cinque blog [Les Fleurs du mal, Pubblica Bettola, BlaBlaBook, Giramenti, Mind Spot] e sull’evento creato ad hoc dalla casa editrice verranno estratte a sorte tre copie in ebook e una cartacea del romanzo.
Sinossi: Nell’estremo lembo della provincia ferrarese, dove il Po incontra il mare, Giovanni e Iolanda, fratelli e nemici, devono patteggiare per sopravvivere. La loro casa è nascosta nella golena; lì accanto il cimitero. Il Po e l’Adriatico scandiscono ore e stagioni come le campane a morto segnano i giorni dei protagonisti. Lui con un passato di ricoveri psichiatrici, lei priva di uno scopo e intenzionata a trovarne uno. Morendo, la madre ha lasciato dietro di sé le macerie di un morboso attaccamento alla figlia e Giovanni ora può finalmente far scontare alla sorella anni di materne angherie. Ma non sarà questo a innescare il meccanismo che li porterà allo scontro, perché mentre Giovanni trama Iolanda agisce: rimasta senza la madre da accudire, l’anziana donna cerca una bambola a cui prestare attenzioni:Francesca, una bambola viva. Sarà lei a riportare a galla il marcio che cova nel passato di Giovanni e Iolanda. Divisi seppur inscindibili, ma nella vecchia casa non c’è spazio per entrambi.
Giovanni e Iolanda sono i protagonisti di questa storia ambientata a Goro, paese reale in provincia di Ferrara; sono fratelli e nemici (dalla sinossi) ma…
Giovanni e Iolanda sono molto di più. Iolanda è la bambina che deve rimanere a casa ad accudire la mamma e giocare con le bambole, mentre Giovanni può andare a scuola, giocare con la fionda, con la palla, rimanere in giardino o andare al fiume. Tuttavia la storia di questi due bambini, ormai adulti, non è così semplice come potrebbe sembrare e non poteva essere diversamente visto che stiamo parlando di un horror. Iolanda non può andare da nessuna parte, non è mai andata da nessuna parte; lei del paese non sapeva nulla, sapeva che esisteva perché vedeva arrivare Giovanni con le borse della spesa appese al manubrio della bicicletta; Giovanni era quello che le leggeva in testa e quello che portava a casa le bambole, perché lei ne aveva bisogno; lei era quella che doveva sistemare la casa, tenerla pulita, lui l’unico uomo rimasto in quella casa nascosta dalla grande siepe e dal cancello che copriva con un telo mimetico, perché nessuno doveva guardare dentro.
Potrei continuare a parlarvi dei due protagonisti, sottolineando i loro caratteri, le loro ossessioni, i loro pensieri, ma mi fermo qui: rischierei di fare spoiler e non mi piace per niente.
Voglio parlarvi invece di “protagonisti differenti”: cose e luoghi.
Parto dal primo capitolo con un breve estratto:
Il piede rimaneva immobile, chiedendosi perché gli fosse stata levata la vita. L’aveva capito al primo tonfo: da quel momento dalla caviglia, suo naturale approdo al resto del corpo, il sangue sarebbe fluito. Lui non poteva opporsi, mentre l’ombra del ceppo cadeva sulle unghie laccate, quasi volesse assorbire l’ultimo calore del piede morente. In fondo un piede è soltanto un punto d’appoggio, due ci permettono la posizione eretta, un piede solo, mozzato con l’accetta, diventa un orrido orpello. Sangue e taglio slabbrato, forse segarlo sarebbe stata un’idea migliore.
E’ l’incipit del romanzo, un entrata nitida, descritta magistralmente. E’ come se si stesse entrando in una scena di un film, manca solo il sottofondo musicale a rendere il tutto ancora più vibrante e orrido. Il piede è uno dei protagonisti differenti e appare molte volte lungo la narrazione. Il piede è quella cosa dall’osso azzurro che comprende di essere inservibile, con il sangue che prima fluisce copioso e poi diventa un sorriso fetido su di un osso cieco, dalle unghie rosse che sembrano occhi maligni. Il piede e la caviglia. Il piede che è rimasto orfano di tutto il resto del corpo e la caviglia dall’osso scheggiato dal quale il sangue esce in rivoli colorati e isterici.
La donna prese la sedia e la spinse verso la porta sul retro. Le ruote cigolavano una nenia feroce; anche loro volevano sgridarla, convinte d’aver fatto il loro dovere si ritrovavano a mettere in discussione il futuro.
La sedia un altro protagonista differente. La sedia ha una sua storia: è quella dove trasportavano la mamma quando il cancro non le permetteva più di rimanere in piedi. E non è tanto la sedia in sé il protagonista differente, ma le parole che usa Gaia per descriverla e inserirla nelle scene come un flusso di ricordi o nei pensieri di Iolanda che cerca una soluzione intelligente per non farsi dire da Giovanni che è la solita stupida, la solita incapace che deve sempre farsi aiutare.
Poggiò il piede a terra, col maglione a fargli da cuscino. Prese il sale con le mani a coppa e iniziò a spargerlo nel cassetto, lasciandolo cadere come chicchi di riso sul sagrato di una chiesa parata a festa. Quando raggiunse l’altezza di un palmo, ci accomodò al centro il piede di Francesca, chinandolo dolcemente su di un lato. La pelle era gelida e viscida, sembrava la gomma degli stivaloni da pioggia di Giovanni. «Vedrai che starai bene qui» gli disse, coprendolo con altro sale. Si fermò solo quando raggiunse l’orlo del cassetto.
Il sale. Iolanda, a un certo punto, pensa che il freezer potrebbe essere utile per mantenere vivo il piede, ma poi, nei suoi folli pensieri, si ricorda che la mamma conservava i cibi con il sale da cucina. E’ il momento in cui la donna ci mostra ancora il suo timore verso il fratello e in questo capitolo appare anche la figura del padre.
Se fosse arrivata lassù, avrebbe visto il paese. Il fiume avrebbe condotto il suo sguardo fino al campanile che si ergeva nella piazza: là c’era Goro, il piccolo paese che giaceva molti metri sotto il livello di quella massa d’acqua. Se li si guardava, subito ci si rendeva conto che il liquido avrebbe potuto uscire dall’alveo come la mano da una tasca, arrivando con dita lunghe a stritolare le case e la gente, affogando tutto.
E poi c’è Goro, il paese in cui è ambientata la storia. Un paese, i suoi abitanti, le voci, la storia di tanti, le usanze, il cimitero, il Po.
La casa le era parsa bianca, curata nonostante la povertà che sprigionava, come una donna brutta che dissimula le pecche per farsi coraggio. Ma l’appendice che stava al termine della ghiaia sembrava una donna che si è lasciata andare allo sconforto, senza più lottare contro la bruttezza che la rende deforme.
La casa imbiancata di fresco. La casa odorosa di alcool. La casa fin troppo in ordine per uno come Giovanni che ha vissuto per molti anni in un istituto per malati di mente.
Quanti topi potevano esserci in cantina? Le sembrava di sentirli squittire, ma non ne distingueva le voci. Si stavano forse chiedendo da che parte iniziare a mordere? Si strinse nel vestitino di cotone e rimase in attesa, piegando a sé le ginocchia per proteggere i polpacci. Di sicuro i ratti avrebbero preferito la carne più tenera: anche mamma faceva così quando le preparava il pollo, ché la parte morbida è digeribile e fa crescere sani i bambini. E se ai bambini piace la carne tenera, probabilmente anche ai topi non doveva dispiacere.
I topi, quelli che non muoiono mai, citando il sottotitolo del libro. I topi che le entrano in testa con il loro squittire, che la accerchiano in cantina, dove Giovanni la chiude ogni volta che deve arrivare la signorina dell’USL. I topi che morendo lasciano un alone giallo, quelli che Giovanni uccide perché la mamma non riesce più a farlo e lui è il solo uomo in casa.
Dallo scantinato, Iolanda lo sentì armeggiare col chiavistello, udì la lunga catena scivolare tra le sbarre del cancello e i cardini non fare obiezioni. Non l’aveva mai visto aperto, ma poteva immaginare la breve strada sterrata che scendeva dalla carreggiata sull’argine. Dalla bocca ferrosa, spalancata e violabile, le mura del cimitero le sarebbero parse ancor più vicine, più di quanto apparissero dalla finestra della sua camera. Il cancello aperto e la porta della cantina chiusa, sbarrata, perché era il giorno della signorina e Iolanda doveva fingere di non esistere.
Il cancello aperto e Iolanda doveva smettere di esistere!
Tanti protagonisti differenti, ognuno con la loro importanza, perché in questo romanzo ogni cosa è studiata e descritta fin nei minimi particolari. Protagonisti differenti mai fine a se stessi.
L’ultimo protagonista differente e, secondo me, quello più importante è la scrittura. Gaia usa descrizioni efficaci, immagini costruite ad arte, dense di contenuto ed è come se il lettore stesse assistendo a una pellicola cinematografica divisa tra passato, non esattamente nitido, e presente, dai contorni netti. Una prosa punteggiata di figure retoriche brillanti, mai banali. La Conventi racconta la storia di Giovanni e Iolanda con uno stile che è il miglior biglietto da visita dell’orrido, della paura, delle ossessioni, della follia.
Xo Xo Rita Angelelli
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Più leggo di questo libro più mi sembra di trovarmi davanti a un piccolo capolavoro stilistico. E io sono una sostenitrice della forma, ma non come qualcosa di vacuo e accessorio in contrapposizione al valore sovrastimato del contenuto, bensì come un “altro” tipo di contenuto. Non per niente si tratta di scrittura, che è già di per sé una forma.
La presentazione di tutto quanto c’è “dietro” la storia e i suoi protagonisti apre le porte alla scoperta di un vero capolavoro.
Condivido e sottoscrivo l’analisi. Ho letto ( sarebbe più corretto dire “divorato “) D’argine al male e lo consiglio a tutti coloro che cercano qualcosa di scritto veramente bene.
Bello bello bello!